L’originalità non è una ricerca, ma una scoperta. Anzi, un’invenzione. E, come tutte le invenzioni, ha una sua storia.
Si dice, ed è vero, che essere completamente originali sia impossibile, per il semplice fatto che la creatività umana si basa sull’elaborazione delle esperienze e delle conoscenze acquisite. Le idee si sviluppano attraverso l’interazione con il mondo che ci circonda e con le influenze culturali cui non ci possiamo sottrarre – e nemmeno vogliamo, perché spesso è proprio quello che vogliamo rappresentare.
Eppure, qualsiasi artista ha l’ambizione di rompere gli schemi, essere innovativo; di presentare una visione inedita di qualcosa, possibilmente a sua volta qualcosa di mai esplorato prima.
Solo a leggerlo, fa sospirare pensando ‘ma magari!’.
Creare una storia nuova e inedita, quanto più distante possibile da qualsiasi canovaccio già conosciuto dal pubblico, è l’ambizione di qualsiasi narratore moderno. E poche cose l’irritano più dell’insinuazione che la sua storia sia meno che inedita: forse, anzi, l’unica offesa peggiore è scoprire che qualcun altro ha indebitamente copiato l’opera, appropriandosi del merito. L’accusa di plagio è la più infamante, non solo a livello giuridico, ma anche sul piano etico. Un autore che plagia non è un autore, ma un imbroglione.
Qualunque forma d’arte risponde a questa esigenza di originalità: nessun complimento è più grande di “mio Dio, non avevo mai visto niente di simile!”, e nessun insulto è peggiore di “Ah, ma questo è uguale al lavoro di Tal scrittore/pittore/musicista/scultore/altra categoria creativa”.
Per un artista moderno è meglio creare qualcosa di brutto, ma originale, piuttosto che imitare la bellezza già pensata da qualcun altro. Gli esempi si sprecano, e penso che ognuno possa portarne a dozzine, nell’ambito artistico che preferisce o gli compete.
Eppure non è sempre stato così. Anzi, è così da pochissimo tempo.
Questo modo di pensare, per noi così scontato che non riusciremmo a ragionare in termini diversi, è a tutti gli effetti una rivoluzione, nel modo di concepire le storie e il modo di raccontarle.
Lo stesso concetto di furto di idee, o di plagio, ispirazione non autorizzata, insomma il diritto d’autore così come lo conosciamo, è un’invenzione moderna. È uno degli effetti di due rivoluzioni industriali e di tutti gli sviluppi sociali, scientifici ed economici, che dal Settecento in poi hanno contribuito a creare la forma mentis dell’uomo moderno.
Una storia, per essere degna di nota, deve prima di tutto essere originale, scostarsi il più possibile dalle altre storie raccontate in precedenza. Maggiore è l’originalità, maggiori saranno i suoi meriti e, soprattutto, il successo di cui godrà presso il grande pubblico, a sua volta un’invenzione moderna.
L’intrattenimento di massa esiste davvero da poco tempo, e il business che vi ruota attorno ha cambiato radicalmente il concetto di creazione di storie. L’innovazione significa l’accesso a un mercato che prima non esisteva, o che non esisteva così come viene proposto in quella nuova versione. È qualcosa che ha un valore, cioè qualcosa che può venire comprato, venduto… rubato.
Una storia originale è qualcosa che può attirare l’attenzione del grosso pubblico, e il grosso pubblico è disposto a pagare. Perciò, ecco che l’originalità acquisisce un proprio prezzo di mercato. Ed ecco che l’originalità diventa la qualità più ricercata, nonché un’ambizione per nulla segreta di qualsiasi autore, in qualsiasi ambito artistico. Chi non vorrebbe essere ricordato come quello che ha inventato una nuova corrente artistica, un nuovo genere letterario, un nuovo accordo musicale?
Sopratutto, chi non vorrebbe guadagnarci da questo, visto che guadagnarci è possibile?
Non è sempre stato così.
Prima delle rivoluzioni industriali, e conseguentemente quelle culturali e scientifiche, le storie e le opere artistiche erano appannaggio di un numero abbastanza ristretto di utenti. C’erano i grandi mecenati, naturalmente, ma i narratori di storie esistevano anche nei villaggi – la proverbiale nonna davanti al fuoco, oppure i menestrelli, i lettori girovaghi, imbonitori o artisti di strada. Tutti loro avevano una caratteristica in comune: raccontavano ciò che sapevano già. Il loro pubblico esigeva opere simili a quelle che già note, già apprezzate. La novità erano un rischio: il rischio di annoiarsi.

JH Lacrocon John William Waterhouse – Un Racconto Dal Decameron
Al contrario dei narratori moderni, quindi, gli artisti del passato si preoccupavano, più che di inventare qualcosa di nuovo, di trasmettere bene ciò che avevano imparato da altri. La cosa importante era rispettare il principio di autorità, e rassicurare il proprio pubblico sul fatto che quello che si offriva loro era parte di un repertorio di un altro narratore, più anziano e autorevole. Meglio ancora se risalente a tempi lontani, di un passato che veniva così tramandato in modo da non poterlo dimenticare.
Questo bisogno era così forte che le fonti, quando non esistevano, si inventavano. “C’era una volta” non era solo l’inizio delle fiabe: era la garanzia che quello che si raccontava c’era stato davvero, una volta, tanto tempo fa. Sì, per carità, magari la storia era stata abbellita (o magari no; ma l’origine delle fiabe popolari è un argomento così vasto che non mi azzardo neppure a sfiorarlo, in un articolo che parla di tutt’altro), però era quella storia, ben riconoscibile. Se c’erano delle variazioni, delle innovazioni, il pubblico se ne accorgeva e, solitamente, non gradiva.
Prima dell’inizio delle rivoluzioni industriali, ‘avere un’idea’ era una cosa sicuramente positiva, ma di cui, fondamentalmente, importava solo a chi, nell’immediato, di quell’idea ne usufruiva; e non era un problema se qualcuno, vista quell’idea, la applicava a sua volta, perché il fatto di farlo non sottraeva niente a chi l’idea l’aveva avuta. Non esistendo produzioni industriali, un’imitazione veniva considerata semplicemente qualcosa fatto appoggiandosi a un esempio illustre: qualcosa che aveva già dimostrato di funzionare, e quindi si poteva ritenere affidabile.
Se l’esempio era sufficientemente imitato, diventava tradizione.
Il nome di chi, per la prima volta, aveva apportato quell’innovazione, scompariva, non perché lo si volesse insabbiare, ma perché allo stesso innovatore non importava, giacché non poteva guadagnarci niente, e niente ci avrebbe perso. Se qualcun altro, dall’altra parte del regno, raccontava la storia che aveva inventato lui, cosa gli toglieva? E se la raccontava meglio, perché prendersela? Era l’altro a raccontare, non lui.
Il fatto che qualcuno imitasse un’opera, o la ripetesse, non toglieva niente a chi quell’opera l’aveva creata, tanto più che egli stesso, con ogni probabilità, si rifaceva a dei maestri autorevoli. Anzi, il pubblico si aspettava che venissero citati, e li chiedeva apertamente, se questo non avveniva.
Tale richiesta del pubblico era talmente forte che, quando l’illustre maestro mancava, magari perché l’autore aveva effettivamente inventato una storia propria, occorreva crearlo.

(Toulouse) Le Goût (La Dame à la licorne) – Musée de Cluny Paris
Almeno fino alla fine del Medioevo, gli scrittori citavano direttamente i nomi delle storie che ‘ripetevano’, in modo da assicurare al proprio pubblico delle storie garantite, non sospette novità. Pur affidandosi al proprio genio individuale, questi autori (tra cui Caucher e Boccaccio, per citarne solo due), si rifacevano al principio di autorità, che era ritenuto fondamentale.
Anche se a noi ‘moderni’ questo modo di pensare suscita un certo fastidio, c’è da dire che aveva davvero molti pregi: e grazie a esso, per esempio se le fiabe tradizionali sono arrivate quasi intatte fino a noi, se abbiamo i poemi omerici, o quelli norreni, e quasi tutto il folclore sacro e profano che conosciamo benissimo. Se lo scopo degli autori fosse stato di essere sempre originali, di mettere la propria firma insomma, tutto quel materiale si sarebbe perduto.
Non che ci fosse qualcosa di male nell’essere inventori di storie, anche prima della rivoluzione industriale. È solo che serviva a poco. Non era incoraggiato né desiderato. Quello che si chiedeva era il rispetto della tradizione.
La tradizione aveva resistito alla prova del tempo, e quindi era ragionevole ritenere che fosse valida. L’unica qualità che davvero aveva importanza era che un’opera venisse tramandata: se molte persone l’apprezzavano e la raccontavano, e questo continuava ad accadere a distanza di tempo, era la dimostrazione che si trattava di una storia valida.
Questo modo di pensare è ancora oggi considerato un grande pregio in un’opera (chi non vorrebbe scrivere qualcosa di immortale, che tra cinquanta o cento anni sarà ancora amato come nel presente?), ma in un’epoca pre tecnologica era l’unica qualità che contasse. Il motivo era molto semplice, e quindi molto solido: la vita era dura. Anche le persone più abbienti non potevano essere sicure che un incidente o una malattia non li avrebbero uccisi presto. Non c’era quindi niente di più corroborante che sentirsi al sicuro, ascoltando storie che, giunte da un passato lontano, sarebbero arrivate a un lontano futuro. Erano la cosa più simile all’immortalità che si potesse ottenere.
Con l’inizio delle grandi produzioni destinate alla massa, tutto questo è cambiato. Le storie classiche non erano più sufficienti a soddisfare la domanda di un pubblico crescente – sia per l’aumento demografico, sia per l’alzarsi della percentuale di popolazione alfabetizzata – e l’originalità è diventata un’esigenza. Non c’era più da andare tanto per il sottile, non c’era tempo di ‘garantire’ una storia attraverso la prova del tempo: occorreva sostenere il mercato, e occorreva farlo subito.
È divertente, se ci si pensa: quello che per noi è il pregio principale di un’opera è nato soltanto perché occorreva ‘fare massa’ e dare alla gente più materiale possibile. Ma, capiamoci, non sto dicendo che di colpo c’erano mille idee nuove e originali, che di colpo sono fioriti i Dumas, le Shelley, i Conan Doyle, i Jack London, e via dicendo. Quelli ci sono sempre stati, c’erano anche nel Medioevo, e prima ancora, fino ad arrivare alla preistoria. Le loro storie sono arrivate fino a noi, e il fatto di non conoscere (con certezza) i loro nomi, non cambia il fatto che quelle storie sono state inventate da qualcuno, che ovviamente ha avuto il guizzo di originalità iniziale. Non sto dicendo che l’originalità è nata con la cultura di massa di due rivoluzioni industriali.
Sto dicendo che la cultura di massa è stata il sostrato in cui l’originalità autoriale poteva trovare terrendo fertile, e finalmente uscire allo scoperto.
Ma, anche qui, non è che sia stato un processo immediato, perché il pubblico, anche se era aumentato a dismisura e cominciava a preferire l’innovazione alla tradizione – le nuove scoperte umanistiche e scientifiche lasciavano sperare in un futuro migliore della tradizione passata – dopotutto era sempre lo stesso di sempre. Sì, certo, un autore non doveva più inventarsi nomi illustri cui attribuire la sua storia, ma qualcosa doveva pur fare. Il principio di autorità era sempre presente.

Robinson Crusoe e il suo diario vero/finto, nel rispetto della tradizione, verso l’innovazione.
È di questi anni l’invenzione delle principali tecniche letterarie oggi note, quelle che diamo per scontate considerandole tradizione (a volte perfino stantia): eppure, si tratta di innovazioni straordinarie, veri guizzi di genio degli autori che volevano questo e quello, e trovavano il modo di ottenerlo.
Il pubblico voleva l’innovazione, ma la tradizione andava rispettata. Perciò, perché non far raccontare la storia a chi l’aveva vissuta, in prima persona?
Robinson Crusoe non è scritto in forma di diario perché il pubblico doveva immedesimarsi, ma perché occorreva instillare il dubbio che fosse tutto vero. Naturalmente, i lettori sapevano benissimo che si trattava di pura fiction, ma penso tutti sappiamo quanto la suggestione sia fondamentale, quando si tratta di storie.
E che dire del raccontare una storia attraverso un manoscritto trovato da qualche parte? Per noi è soltanto un espediente narrativo, talmente abusato da essere cliché: ma per gli autori che l’hanno usato era necessario a dare quella patina di autorità, quella sensazione che il pubblico ancora voleva. “Vedete, questa storia non è mia, io l’ho solo rielaborata. In realtà è molto più antica, nemmeno so dirvi quanto, ma adesso ascoltate…”
Il nuovo bisogno di storie innovative, che si potessero ricondurre a un autore specifico, si coniugava con l’antica necessità di avere storie ‘garantite’. E questo ha portato alla creazione di una letteratura nuova, qualcosa che a noi sembra scontato, ma che unisce due delle necessità tipiche di qualsiasi lettore: trovare qualcosa di inedito, di fresco, e contemporaneamente rassicurante, già noto.
Sublime.
Ma, secondo me, è ancora più sublime il fatto che tutto questo continui a dare vita a nuovi filoni e nuove correnti narrative.
I retelling fiabeschi e mitologici, che negli ultimi anni hanno avuto una vera esplosione, sono in realtà qualcosa che è sempre esistito e, se avete letto fino a qui, è facile capire perché.
Prendere una storia nota, con nomi noti e trama già scritta, risponde a quel bisogno ancestrale di rispetto della tradizione, di potersi dire “ah, questa storia la conosco, so che è bella e mi piacerà”, e al tempo stesso rispetta la nuova esigenza di trovare delle novità. Un mare in tempesta in un porto sicuro, insomma.
In senso più ampio, la stessa preferenza per un genere letterario rispetto a un altro risponde a quest’esigenza. Si cercano storie garantite, anche quando si cercano storie diverse.
Ma forse è molto più semplice di così. Forse la risposta l’ha già data Italo Calvino con Se una notte d’inverno un viaggiatore, parlando di come un lettore qualsiasi sceglie le sue nuove letture. In effetti, tutto quello che ho scritto si può condensare in due semplicissime righe:
“…definire l’attrattiva che esse esercitano su di te in base ai tuoi desideri e bisogni di nuovo e di non nuovo (del nuovo che cerchi nel non nuovo e del non nuovo che cerchi nel nuovo).”
Bibliografia di riferimento:
- La fiaba nella tradizione popolare, Stith Thomps ed. Il Saggiatore,
- La fiaba popolare europea, forma e natura, Maw Lüthi, ed. Mursia
- Breve storia di (quasi) tutto, Bill Bryson, TEA
Scritto da : Laura MacLem
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