Leggo spesso affermazioni come ‘adesso vanno di moda i retelling’ e ‘questa moda dei retelling’, e ogni volta la mia faccia diventa come quella del meme della tizia circondata da equazioni assurde. Non capisco, giuro che non capisco. Moda? Seriamente?
È vero che negli ultimi anni le riletture di storie classiche (dai miti alle fiabe) è entrata nella cultura pop e adesso se ne possono trovare un po’ ovunque, ma, come dire… no. Non è una moda di adesso, non è una moda per niente, e non è una cosa che si sono inventati gli editori sull’onda di qualche best seller del momento.
Quella delle riletture dei miti è una tradizione, non una moda. Praticamente tutti i grandi scrittori ci si sono cimentati, per il semplice motivo che i miti sono qualcosa di universale. Hanno sempre qualcosa da dire. C’è, in un singolo mito di poche righe, così tanto significato che, da un secolo all’altro, la sua lettura può cambiare completamente – basti pensare al Minotauro, a come sia passato da mostro spaventoso a povera creatura vittima di un destino del quale non ha nessuna colpa.
Uno scrittore del Novecento ha, accostandosi a un mito, sensibilità e approccio diverso rispetto a uno scrittore dei secoli precedenti, e la sua visione sarà necessariamente diversa. L’arte non è una cosa statica, ma vive, evolve, e i miti evolvono con la mentalità delle persone che li ascoltano.
Se di moda di questi anni si può parlare, al limite è la moda di scrivere romance a tema mitologico, e immagino che tra una ventina d’anni alcuni di questi andranno nel pantheon delle riletture, insieme ad altri già scritti (altri saranno dimenticati come un brutto trauma, com’è giusto che sia).
Ve ne propongo alcuni tra quelli che preferisco, tutti belli datati e fuori moda, come piace a me e come non piace a chi, del retelling, non sa nemmeno sillabare il nome.

La morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt

«Stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro».
La Pizia è una vecchia atea cinica, che deve rispondere alle domande dei fedeli fino alla sua morte… non molto lontana, come si può intuire dal titolo. In questa rivistazione del mito di Edipo, Dürrenmatt  sembra voler creare una commedia degli equivoci, pregna di sarcasmo verso tutti quei nobili ossessionati unicamente dalla purezza della propria stirpe. Andando avanti, però, la vicenda si fa sempre più ingarbugliata, sempre più complessa e labirintica, perché una volta svelata una verità, ci si accorge che essa nasconde un’altra verità, e poi un’altra ancora, e un’altra: alla fine, la verità vera sembra essere soltanto un ammasso di bugie raccontate da ciascuno dei soggetti coinvolti. Chi sono, quindi, i genitori di Edipo? E chi è Edipo?
Una storia che parla di come sia difficile scoprire qualcosa, se tutti hanno qualcosa da nascondere. E, forse, l’oracolo di Delfi, luogo enigmatico per eccellenza, non è il posto migliore in cui recarsi, se si vuole risolvere il rompicapo… ma è l’unico posto possibile.
Una magnifica metafora sulla verità, la menzogna, e di come l’una non possa esistere senza l’altra.
Unico difetto: otto euro per trenta pagine scarse sono davvero troppo, anche per un libro di Adelphi. Per fortuna esistono le biblioteche.

Lei dunque capirà, di Claudio Magris

Una donna, ricoverata in un ospedale psichiatrico (o forse un carcere?) dal quale non ha nessuna speranza di uscire, in occasione di un permesso eccezionale per uscire e avere l’opportunità di rivedere suo marito, si lascia andare a un lungo monologo: il destinatario è un certo Presidente, cui la donna si rivolge per spiegargli le ragioni del suo rifiuto di uscire. Rievoca la sua vita con l’uomo che l’ha amata e che ancora la cerca, intenzionato a farla uscire da quel luogo da cui nessuno esce mai, e racconta puntualmente per quale motivo non intenda più seguirlo, anche se lui sembra avere così bisogno di lei da non intendere ragioni.
Il mito di Orfeo ed Euridice qui viene esplorato dal punto di vista di lei, fornendoci un punto di vista inedito: e se fosse stata Euridice a non voler tornare nel regno dei vivi? Le sue ragioni, mai raccontate prima, partono da quando lei ed Orfeo erano una coppia apparentemente felice, e la loro relazione era filtrata unicamente attraverso la sensibilità di lui. Il loro amore non è in dubbio, lei lo ama e non smetterà mai di amarlo, ma non intende più seguirlo.
“Lei dunque capirà” non è riferito a Euridice, ma sono le parole della stessa Euridice, che spiega al signore di quel luogo per quale motivo non intende lasciare un posto nel quale, finalmente, ha trovato la pace.
Anche qui, il difetto più grande è il prezzo: dieci euro per nemmeno sessanta pagine urlano ‘biblioteca’ con tutta la forza della povertà che pervade noi poveri lettor compulsivi.

Medea, di Christa Wolf

Un romanzo corale, in cui ogni capitolo è narrato in prima persona da un personaggio della tragedia, che racconta la storia della principessa di Colchide, dalla sua infanzia fino alla terribile scoperta che farà a Corinto.
Christa Wolf (autrice anche di Cassandra, storia magnifica anch’essa ma che ho amato meno della sua Medea), ha approfondito le radici di uno dei miti più disturbanti di sempre: la madre che uccide i propri figli. Ha esaminato la tragedia di Euripide, ha osservato che è stata scritta su commissione proprio della gente di Corinto, e ha supposto che forse le cose non sono andate proprio come ci vengono tramandate. Forse, ipotizza Wolf, non si è trattato di una vendetta, ma di uno scontro di culture, e Medea, donna e straniera, abbandonata dall’uomo che avrebbe dovuto proteggerla, non è riuscita a proteggere la sua gente. Privata delle sue radici, calpestati i suoi ideali, risulta incapace di difendersi, dopo avere scoperto un segreto innominabile nei sotterranei del palazzo di Corinto. Ci sono dei bambini assassinati, sì…
Questa rilettura del mito di Medea è a mio parere irrinunciabile, e andrebbe letta insieme a un altro libro di Christa Wolf: Medea – Voci, nel quale l’autrice ha annotato tutti i suoi viaggi in Grecia e Medio Oriente, le sue fonti e le conclusioni a cui è arrivata, prima di prendere in mano la penna e dare vita alla sua Medea, la principessa tradita. Vi dico solo che il libro che parla delle sue ricerche è più lungo del libro stesso.

 

Il vello d’oro di Graves

La persona che scrive non ha una buona opinione di Graves, per niente. Il suo libro sui miti greci è utile perché ben indicizzato, ma quando si cominciano a leggere le sue deduzioni, meglio tapparsi le orecchie e fare LALALALALALA, visto che si tratta di conclusioni arbitrarie e assolutamente non supportate dai fatti (o smentite nettamente da ricerche successive). Detto ciò.
Come romanziere Graves fa la sua porca figura, forse proprio perché è più bravo a inventarsi le cose che a ricostruirle, e con Il vello d’oro traccia la missione degli Argonauti in maniera davvero accattivante. La vicenda è nota: Per riavere il trono che gli è stato usurpato, Giasone raccoglie una sfida a tutta prima impossibile: raggiungere la Colchide per recuperare il Vello d’Oro. A far vela con lui a bordo della nave Argo sono i grandi eroi dell’antica Grecia, tra i quali Ercole, Orfeo, i gemelli Castore e Polluce, l’indovino Linceo e la vergine Atalanta. Arrivato a Colchide, conquisterà il vello grazie all’aiuto di Medea, qui innocente principessa che si lascia incantare dalle belle parole dell’eroe (?), facendo in pratica tutto il lavoro per lui. Spoiler: alla fine capirà di essere stata presa per i fondelli.
Il punto forte del romanzo sono sicuramente i personaggi: ognuno di loro è caratterizzato con precisione e con parecchia ironia, e molti dei miti inerenti vengono risolti con il rasoio di Occam: la spiegazione più semplice è probabilmente quella vera. Così, è verosimile che Ila, scudiero e amante di Eracle, non sia stato rapito dalle ninfe, ma se la sia semplicemente filata perché non sopportava più gli abusi di quel bestione senza cervello; Giasone è un povero fesso che crede davvero che riportare in patria un pezzo di lana dorata indurrà suo zio a cedergli il trono; Meleagro è il perenne friendzonato che non si da per vinto. E via così, fino a costruire un equipaggio eterogeneo, vivissimo e molto gustoso da leggere. Bel libro consigliato a chi ama il mito degli Argonauti, ma più in generale a chiunque apprezzi una bella storia di avventura.

La casa di Asterione, di Jorge Luis Borges

Okay è un racconto contenuto ne L’Aleph, ma a parte il fatto che tutti i racconti di Borges meritano, questo in particolare andava menzionato. Il tema della solitudine del Minotauro, della vita che Asterione conduce rinchiuso nel suo Labirinto, sostenuto solo dalla speranza dell’arrivo di un liberatore, è così potente che ormai è diventato LA versione del Minotauro che tutti conosciamo. C’è un prima e un dopo La casa di Asterione, e quello che prima era un mostro da abbattere, dopo è diventato una vittima da compatire. Le storie scritte prima di questa si riconoscono facilmente, perché il Minotauro è soltanto un animale, funzionale all’eroe per dimostrare il proprio valore; dopo, l’eroe non sarà più così puro e immacolato, e il sangue sulle sue mani ci sembrerà sempre, inevitabilmente, umano.
(ma è giusto così, visto che Teseo culo)

 

 

Il canto di Troia, di Coleen McCullough

Concludo questa breve, parziale e stra incompleta rassegna di alcuni dei retelling mitologici che preferisco, con un’autrice che amo molto. Coleen McCullough è famosa soprattutto per i suoi romanzi sentimentali e per Uccellli di Rovo, che io non ho nemmeno mai letto: per me lei è l’autrice del ciclo dei Signori di Roma, una serie di romanzi ambientati alla fine dell’età repubblicana, fino alla morte di Giulio Cesare e al successivo triumvirato.
Se non l’aveste capito, vi consiglio tantissimo i suoi romanzi storici.
Il canto di Troia è, evidentemente, una rilettura della guerra di Troia. La narrazione è corale, e tutti i personaggi principali hanno i loro capitoli, in cui raccontano se stessi, le loro vicende, motivazioni e azioni. Troviamo quindi Peleo, che per avere voluto in moglie una donna decisamente non convenzionale, pagherà con l’infelicità di una vita intera; Elena, bellissima e consapevole di esserlo, costretto a un matrimonio noioso con un Menelao a cui si ritiene enormemente superiore (questa Elena è una spina in culo come poche, vi avverto: amerete odiarla); Achille, qui in versione no homo – mi spiace – e ritratto in maniera magari un po’ troppo positiva, ma coerente all’interno della storia e tutto sommato apprezzabile; naturalmente, Ettore e Andromaca, il mio personale strazio e dolore mai sopito dai tempi del ginnasio. E Odisseo, che lo dico a fare.
La narrazione non riserva grandi sorprese, è ‘solo’ una narrazione della guerra di Troia molto ben fatta, ben raccontata e ben condotta. Si conclude con la caduta della città e con una nota di speranza finale, forse non proprio in linea con la narrazione omerica, ma ehi, se nei retelling non ci si mette del proprio, non ha nemmeno senso scriverli. Tra tutte le riletture della guerra di Troia che ho letto finora, questa è quella che più ho apprezzato, anche se McCullough e io decisamente amiamo personaggi diversi. Ma la amo anche per questo.

 

…ed è così che ho finito per sbranare il fegato al tizio che sui social diceva che quella dei retelling è una moda moderna, Vostro Onore.

 

Scritto da : Laura MacLem

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